Anche Dante Alighieri ha sofferto di bullismo.
Ecco, nella Firenze del 1300 viveva Filippo de’ Cavicciuli, un nobile che faceva parte dei guelfi neri, coloro che appoggiavano il Papato nella sua lotta contro l’Impero in cambio di vantaggi economici. Filippo in particolare era molto ricco e aveva un vezzo che lo rese famoso: faceva ferrare il suo cavallo con ferri d’argento. Per questo fatto tutti lo chiamavano Filippo Argenti.
Un omone grande, nerboruto e forte, sdegnoso, iracondo e bizzarro. Così ce lo descrive Boccaccio in una novella del Decameron. Pare che il suo nome circolasse spesso sui documenti dei magistrati, e si dice anche che fosse così “bizzarro” da cavalcare a gambe larghe per prendere a calci in bocca i passanti, soprattutto le persone di ceto umile.
Insomma, Filippo Argenti era un bullo, e con Dante Alighieri erano rivali in politica (come saprete, Dante era un guelfo bianco), e vicini di casa. I due si davano la buonanotte augurandosi a vicenda di risvegliarsi freddi, ma questo non fermò Filippo, ferri d’argento e faccia di bronzo, quando chiese a Dante di mettere una buona parola con i giudici perché gli abbuonassero alcune magagne, così da pagare una multa dimezzata.
Dante fece ciò che sentì di dover fare: andò al Palazzo, parlò ai giudici e riuscì a far aggiungere alle tante imputazioni di Filippo un’accusa di reiterata usurpazione di suolo pubblico. La multa venne raddoppiata. Oh, stiamo parlando di uno che rompeva a calci i denti degli altri per il solo gusto di farlo, un uomo “sdegnoso, iracondo e bizzarro”: immaginatevi un po’ che reazione ebbe sul momento. Poi andò da Dante e gli mollò un ceffone che probabilmente è alla base delle sue visioni ultramondane.
Lo scontro tra i due, comunque, non si fermò nemmeno con l’esilio di Dante, né con la morte di Filippo. Quando i guelfi bianchi vennero esiliati da Firenze, i Cavicciuli si impadronirono dei possedimenti degli Alighieri e si opposero al ritorno di Dante in città. Per tutta risposta, Dante relegò nel V cerchio dell’Inferno Filippo Argenti, che nel frattempo si era risvegliato freddo per davvero. Nudo, immerso nella palude Stige, nel grande poema, Filippo si azzanna con gli altri iracondi.
La lettura del canto VIII dell’Inferno ci offre diversi spunti per parlare di bullismo. Filippo Argenti, nel V cerchio, passa l’eternità con gli iracondi e gli accidiosi. Dante ci narra che i primi nuotano in superficie, si azzuffano tra loro e si mordono. Gli accidiosi, invece, sono sul fondo, e fanno ribollire la palude coi loro sospiri. Ira e Accidia sono due vizi capitali e due approcci alla vita negativi, ma sono anche alla base del rapporto tra bullo e bulleggiato.
Parliamo dell’Ira. Chi se la prende con gli altri – come Argenti fa quando prendeva a calci i passanti – deve fare pace con se stesso e col mondo. Ad esempio, quando avevo tredici anni, fui tormentato dal Gabibbo. Non il pupazzo, ma un bulletto grassottello del mio paese che indossava spesso un bomberino rosso. Era un ragazzino trasandato (puzzava di patatine al formaggio) e ignorante (era stato bocciato in prima media). La sua unica forza, l’unico modo che aveva per farsi accettare dagli altri, era la buffoneria. Si sa, far ridere è più difficile che far piangere, e il modo più rapido per conquistare le platee di idioti è la volgarità, meglio se scaricata addosso a una vittima sacrificale. Il Gabibbo ce l’aveva con se stesso, non si accettava, e l’Ira che provava per come si vedeva la riversava su di me, debole e timido. Però ricordo che una volta fu lui a scoppiare a piangere davanti a tutti, perché un altro bel tipo – più grande, più grosso e più alto di lui – gli aveva dato del Gabibbo, appunto. Poveretto, è chiaro che non si accettava granché.
A volte l’Ira deriva direttamente dall’arroganza e dalla presunta superiorità. Prendete l’Argenti: era ricchissimo e schifava i poveri. Era certo di essere intoccabile e faceva il dio tra gli insetti. Ma come fa un dio a dimostrare la sua onnipotenza, se non scatenando la sua Ira divina sugli esseri inferiori? È come voler essere maschi alfa a tutti i costi, devi mettere in chiaro chi è che comanda.
Vi ricordate di quello stronzetto che somiglia a Draco Malfoy? Quello di cui vi ho accennato nell’articolo precedente? Vedete, all’epoca – avevo sedici, diciassette anni – me la facevo con una comitiva con cui oggi non sono più in contatto. Il tempo ha dimostrato che questi ragazzi non meritavano me e io non meritavo loro. A ogni modo, durante una delle mie prime uscite con loro, conobbi questo mio Filippo Argenti – chiamiamolo l’Argentino. Chiacchieravamo e qualcuno fece riferimento al fatto che vivessi in un paese limitrofo alla città dove studiavamo tutti. Ora, non so come uscì il discorso, però mi chiesero se in paese avessimo un ospedale. Io dissi di no, che non c’è ospedale dove vivo, e l’Argentino, da mattatore elegante qual è, se ne uscì con «Seeh, ma se quelli non tengono nemmeno gli occhi per piangere.»
Mi conosceva solo da mezz’ora, eppure mi schifava già così. Cosa gli avevo fatto mai, secondo voi?
Io credo che la sua Ira a priori nei miei confronti fosse dovuta a due fattori. Anzitutto l’ignoranza campanilista di chi è cresciuto con pappa pronta, soldi nel pannolino e Rete4. E poi, fatto fondamentale, al motore immobile che muove tutto a questo mondo: la figa! E sì, perché quella comitiva era composta per la maggioranza da ragazze, alcune anche carine.
Ora, tu sei il maschio alfa del branco e hai già messo al loro posto gli altri maschi del branco, ma il nuovo arrivato è alto un metro e ottantadue e tu ti aggiri intorno al mediocre metro e settanta; lui ha i lineamenti fini e tu hai la mandibola di uno yorkshire terrier; gli altri dicono di lui che scrive racconti e partecipa a concorsi letterari, mentre se non fosse per papino che unge le sedie dei tuoi professori, tu andresti a scuola per studiare sul serio. Il nuovo arrivato potrebbe usurparti il trono, meglio metterlo a posto subito.
E questa, amici lettori, è l’Ira che monta quando ci si sente minacciati.
Ora veniamo all’Accidia. Molti credono che l’Accidia equivalga alla pigrizia, ma non volersi alzare al mattino non è vera Accidia. L’Accidia è l’incapacità di reagire, è il covare dentro di sé la rabbia e ingoiare a vuoto fino a farsi venire l’ulcera. L’Accidia è la piaga di chi non vuole reagire. L’Accidia è la rabbia interiore del bulleggiato.
E quando dico che un bulleggiato soffre di Accidia parlo per esperienza. Io ero accidioso da ragazzino, perché a lungo andare ci diventa comodo dare la colpa agli altri delle nostre mancanze, perché i bulleggiati non sono sempre vittime innocenti. Mi convinco che mi prenderebbero in giro comunque, quindi non mi curo nella persona. Mi convinco che mi parlano dietro, e allora mi privo di uscire e di conoscere altra gente. Sono certo che mi schifano tutti, e allora perché perdere tempo a lavorare su di me, a conoscermi, a rinascere?
Gli accidiosi si piangono addosso.
E no, non è così che si fa.
Per fortuna, Dante ci dà l’esempio, perché tra l’Ira e l’Accidia, tra un estremo e l’altro, ci mostra la via da seguire: lo Sdegno. È con sdegno che Dante va dai giudici e denuncia Filippo Argenti, ed è con sdegno che, nel poema, si rivolge a Virgilio e dice di voler vedere Filippo Argenti immerso nella melma del fiume Stige. Virgilio, che è la Ragione, gli batte pure una pacca sulla spalla, soddisfatto. Perché a provare sdegno non c’è nulla di male, e al contrario, ne abbiamo bisogno, prima di tutto per combattere i nostri peggior nemici: noi stessi.
Con la giusta dose di sdegno lavoriamo su noi stessi, riconosciamo le nostre mancanze e ci miglioriamo, per la sicurezza in noi, che è il vero segreto per farci apprezzare dagli altri. Poi, sempre con la giusta dose di sdegno, senza mai strabordare nella ripicca gratuita, dobbiamo affrontare i nostri bulli. A volte basta solo avere il coraggio di allontanare da sé persone come l’Argentino e trovare una compagnia migliore.
Poi, potreste sempre cominciare a scrivere per sfogarvi. Dante ha scritto l’Inferno per raccontare ciò che nel mondo non va, e Filippo Argenti sarà ricordato come infame finché esisterà la lingua italiana. Io, poi, ho scritto quest’articolo.
Mino Dellisanti
E adesso godetevi la canzone che il grande Caparezza dedica a Dante e al suo bullo.